viernes, octubre 27, 2006

 

atena nera



La civiltà globale moderna, secondo il modello eurocentrico dominante, è il prodotto di un’avventura intellettuale iniziata da zero con gli antichi greci, risultato eccezionale di acquisizioni senza storia e senza precedenti? Oppure la concezione del genio greco (leggi: "europeo") come fonte di civiltà unica e più antica è semplicemente un mito razzista ed eurocentrico? In quest’ultimo il cosiddetto miracolo greco ha avuto la funzione di fondare le illusioni della superiorità culturale europea (specialmente nel diciannovesimo secolo) e di affrancare la storia della civiltà europea da ogni debito nei confronti delle civiltà (indubbiamente più antiche) situate nella regione in cui è avvenuta la rivoluzione agricola nel mondo antico: dal deserto del Sahara, una volta fertile, e dall’Etiopia, attraverso l’Egitto, la Palestina e la Fenicia fino alla Siria, all’Anatolia, alla Mesopotamia, all’Iran - includendo quindi la più piccola Mezzaluna fertile - e alla valle dell’Indo. La Creta minoica, e successivamente micenea, occupa una posizione strategica sia come prima civiltà europea nel Mediterraneo orientale, sia come avamposto delle più antiche culture egizie e asiatiche occidentali. Anticipando la successiva dipendenza della civiltà europea medioevale dalle fonti ebree ed arabe, Bernal sostiene la presenza di un vitale contributo "afroasiatico" alle stesse origini della civiltà greca (o piuttosto africano e asiatico; quella afroasiatica è probabilmente soltanto una delle famiglie linguistiche coinvolte), successivamente diventata europea e oggi nordatlantica, soggetta a un continuo processo di globalizzazione. La monumentale opera di Bernal, Atena nera, concepita come una tetralogia di cui finora sono stati pubblicati i primi due volumi, affronta questi problemi seguendo due prospettive principali. Il primo volume, oltre a presentare un’anticipazione estremamente ambiziosa ma deliberatamente poco argomentata e con scarsi riferimenti bibliografici a sostegno delle scoperte promesse dall’opera nel suo insieme, è in sostanza un’affascinante ricerca di storia e sociologia della conoscenza sulla cultura accademica europea. Esso ricostruisce la consapevolezza storica dei produttori culturali europei rispetto al debito intellettuale dell’antica Europa nei confronti dell’Africa e dell’Asia, nonché la successiva repressione di tale consapevolezza con l’invenzione dell’antico miracolo greco. L’altra prospettiva, di cui il secondo volume costituisce la prima parte, è una rassegna delle prove convergenti a livello storico, archeologico, linguistico e mitologico che evidenziano tale debito culturale. Questa dipendenza storica è emblematizzata nella rilettura di Bernal (sulla scorta di Erodoto) del mito di Atena, in apparenza la più ostentatamente ellenica delle antiche divinità greche, in verità emulazione periferica della dea Neith di Saïs e quindi legittimamente ribattezzata "Atena nera" (Erodoto, Storie, II, 28, 59, 83 ecc.). L’identificazione di Neith con Atena non si limitava ad Erodoto, ma era opinione generalmente condivisa nell’antichità grecoromana. L’opera di Bernal ha avuto finora vicissitudini alterne. I classicisti, che non la considerano una critica forte alla cultura intellettuale eurocentrica del mondo nordatlantico preso nel suo insieme, ma un’accusa scagliata contro la loro stessa disciplina da parte di un autore che insiste nel giocare un ruolo da outsider, lo hanno spesso liquidato scorrettamente; meglio è andata - specie prima della pubblicazione del secondo volume - con gli specialisti di archeologia, cultura e lingue del vicino Oriente antico e di religioni comparate. Quasi tutti i critici sono rimasti impressionati dall’ampiezza e dalla profondità della dottrina di Bernal, ma anche sconcertati dalla sua distanza dai dibattiti in corso. L’ambiente che ha accolto con entusiasmo la tesi centrale di Bernal è quello dei circoli intellettuali degli afroamericani. In tale ambito il grande significato attuale di Atena nera è stato giustamente riconosciuto: non tanto come una sorta di revisione puramente accademica di una storia antica e lontana, ma come contributo rivoluzionario alla politica globale della conoscenza nella nostra epoca.
Tuttavia, essendo l’autore un accademico bianco di estrazione altoborghese, l’impatto di Atena nera è stato notevole. Quest’opera infatti contribuisce alla costruzione di un’identità nera militante, offrendosi come alternativa: non rifiuto pieno di disprezzo, né analoga autocelebrazione come la négritude di Senghor e Césaire che si oppone al modello dominante bianco nordatlantico, bensì cortocircuito di quel modello. Non a caso molte critiche anche aggressive si basano sull’allarme suscitato dalla politicizzazione e dal logorio dell’accademia che deve confrontarsi con l’afrocentrismo militante. Sono stati numerosi gli studi accademici fuori dal contesto del dibattito su Atena nera che hanno insistito sulla continuità fondamentale fra le civiltà del vicino Oriente antico. Questi approcci hanno resuscitato l’antico adagio ex oriente lux, che secondo Bernal contiene in forma frammentaria il "modello antico" (presente secondo lui in molti autori classici, compreso Erodoto) di un indebitamento riconosciuto della Grecia - e dunque di tutta l’Europa - nei confronti del Vicino Oriente antico. Questo motto è stato rifiutato durante l’Illuminismo. «Oggi è dal Nord che la luce viene a noi» (Voltaire, Lettera a Caterina II di Russia, 1771). Ex oriente lux è stato infatti per decenni il nome dell’accademia olandese per lo studio del Vicino Oriente antico e della rivista da questa pubblicata. Anche se il pesante indebitamento culturale dell’Europa nei confronti del Vicino Oriente antico non costituisce più un segreto come un centinaio di anni fa, esso ha incontrato ricezione ostile fino agli anni Ottanta, per cui a Bernal deve essere riconosciuto il merito di aver diffuso questa intuizione cruciale. Atena nera ha contribuito molto a renderla accessibile a circoli culturali che ne avevano estremo bisogno per costruire e ricostruire la propria identità. Del resto, lo stesso Bernal non considera eccessivamente originali le sue tesi: «Dovrebbe essere chiaro a ogni lettore che i miei libri si basano su una tradizione di studio moderna. Le idee e le informazioni che uso non provengono sempre da campioni di sapienza convenzionali, ma pochissime ipotesi storiche portate avanti da Atena nera sono originali. La sua originalità deriva dall’aver messo insieme e reso centrali informazioni che in precedenza erano disperse e periferiche». È un fatto indiscutibile che sistemi di produzione (in parte), lingua, divinità, santuari, miti, magia, astrologia, alfabeto, matematica, arti nautiche e arti commerciali degli antichi greci non erano invenzioni originali, ma avevano antecedenti chiaramente identificabili fra i popoli vicini con tradizioni culturali più consolidate. Le probabili conclusioni parzialmente prevedibili già nel primo volume di Atena nera - che però non dovevano e non potevano essere discusse seriamente prima della pubblicazione completa dei volumi successivi - avevano provocato un dibattito riguardante gli eventuali antecedenti egizi della scienza e della filosofia della Grecia classica. Diversi critici deplorano la supposta incompetenza con cui Bernal si riferisce a una corrente di sapere egizio che - spesso con il nome di ermetismo - ha presumibilmente permeato la cultura europea fin dalla tarda antichità. È difficile capire se le opinioni liquidatorie di questi critici derivino semplicemente da un loro personale disappunto nel vedere le cosiddette "pseudoscienze", come astrologia, geomanzia e alchimia, elevate al rispettabile rango di veicoli di trasmissione segreta della conoscenza: è il modo in cui molti occultisti hanno considerato la questione nel corso dei secoli. Alcuni recenti studi sulla tradizione ermetica, rispettabili dal punto di vista accademico e senza la minima connessione con il dibattito su Atena nera, arrivano a conclusioni analoghe. Essi considerano l’esoterismo europeo un veicolo, non direttamente del pensiero dell’antico Egitto del periodo dinastico che si estende nei tre millenni precedenti l’era volgare, ma certamente un veicolo del pensiero esoterico della tarda antichità; in realtà, i dettagli sulla continuità di quest’ultimo con il periodo dinastico devono essere ancora stabiliti dagli egittologi, ma non ci si può sottrarre a un’impressione generale di continuità. Quale che sia la verità, dalla tarda antichità all’illuminismo europeo la produzione intellettuale in campo esoterico è stata massiccia, per non dire predominante, dando luogo a un enorme corpus letterario che pochi ricercatori possono dire di aver esaminato con competenza; occorre dire che le incursioni di Bernal in questo ambito sono coraggiose e stimolanti. Una parte considerevole del secondo volume di Atena nera è dedicata a una trattazione che considera la scarsità di tracce archeologiche il risultato di una miopia accademica, esortandoci a considerare i documenti disponibili in una nuova luce. In realtà le prove documentarie non erano davvero esigue, persino nella metà degli anni Ottanta quando Atena nera è stata concepita. Eppure all’inizio pochi erano convinti dalle tesi di Bernal al riguardo. È necessario riconoscere il contributo egizio, o in generale del Vicino Oriente antico, come essenziale per la civiltà greca classica (tesi della diffusione), e al tempo stesso che Atena ha origine da un presunto modello egizio, con cui progressivamente i legami sono stati recisi, in un processo di trasformazione originato dall’integrazione con la nascente cultura locale (tesi della successiva localizzazione). Atena ha quindi un culto ben preciso perché diventa un simbolo identitario di acquisizioni culturali locali che sono specificamente greche. L’origine della civiltà greca non si trova nella netta opposizione tra afroasiatici e indoeuropei.

(traduzione di Mariagrazia Pelaia)

http://www.shikanda.net/ancient_models/gen3/aankten3.html
http://www.shikanda.net/afrocentrism/index.htm

viernes, octubre 20, 2006

 

yunus




Il Nobel per la pace è stato assegnato a Muhammad Yunus e alla Grameen Bank (“Banca rurale”, in bengalese) – che hanno preceduto altri 190 candidati –, con la motivazione secondo cui ”hanno dimostrato che anche i più poveri fra i poveri possono lavorare per portare avanti il proprio sviluppo”. La Grameen Bank, fondata da Yunus, è appunto una banca specializzata nel microcredito a favore dei più disagiati. Muhammad Yunus è nato nel 1940 a Chittagong, cittadina mercantile del Bengala orientale, e ha dedicato la propria vita alla realizzazione di progetti per l’emancipazione dalla miseria. Appena laureato, è diventato docente di scienze economiche presso l’Università di Chittagong e, nel 1965, ha ottenuto una borsa di studio Fulbright, che prevedeva un soggiorno continuato all’Università Vanderbilt di Nashville, in Tennessee, dove ha conseguito il Ph.D. nel 1969. In seguito, ha insegnato alla Middle Tennessee State University, come assistente di Economia. Durante la sua permanenza negli Stati Uniti (dove è rimasto fino al 1972), ha conosciuto Nicholas Georgescu-Roegen, che gli ha mostrato come si tenda troppo spesso ad applicare a problemi semplici soluzioni complesse e come un metodo concreto di analisi possa aiutare a individuare soluzioni per il futuro molto più di tanti postulati astratti. Ritornato in patria, Yunus, dopo un breve incarico come rappresentante del Governo nella Divisione di Economia Generale del Bangladesh, è stato docente di Economia e direttore del Dipartimento di Economia dell’Università di Chittagong, dal 1972 al 1989. Nel 1976 ha avviato l’iniziativa della Grameen Bank, la prima banca etica del mondo, dimostrando che, accordando minuscoli prestiti alle famiglie indigenti, si può fare di più che con le tradizionali politiche degli aiuti esteri: la ricetta, molto semplice, è quella di incrementare il reddito dei più poveri, promuovendo la crescita delle attività (e del mercato) al livello più basso dell’economia. Muhammad Yunus, dal 1983, è anche il direttore della Grameen Bank. Membro di innumerevoli comitati – nazionali e mondiali – nei settori dell’educazione, della prevenzione dei disastri, della sanità e dei programmi di sviluppo economico, bancario, demografico, ha ottenuto grande quantità di premi internazionali di primaria importanza. Ideatore della Grameen Bank e, perciò, definito dai media il “banchiere dei poveri”, ha promosso in Bangladesh il “progetto microcredito”, che è arrivato a interessare 72.096 villaggi (l’86% dell’intero paese), 2.247 agenzie e oltre tre milioni di persone. Questo modello si è diffuso, direttamente o indirettamente, nei cinque continenti (attraverso centinaia di banche simili alla Grameen), coinvolgendo oltre sei milioni e mezzo di beneficiari, non solo nei paesi in via di sviluppo. La Grameen Bank si è specializzata, in particolare, in prestiti “base” di 100 dollari e ha permesso, così, di realizzare le condizioni essenziali per avviare alle attività autonome milioni di persone, conseguendo un ricavo netto complessivo, che, nel 2005 ad esempio, è stato di 1.000.441.986 di taka (pari a oltre quindici milioni di dollari). Di grande rilievo è il ruolo delle donne, che sono le principali protagoniste dell’esperimento di Yunus (il 97% del totale dei beneficiari dei prestiti). Il suo modello solidale, inoltre, è stato applicato anche dalla Banca Mondiale e da altre organizzazioni internazionali. Partendo dallo studio dell’economia di un villaggio del Bengala, Muhammad Yunus ha compreso che, mentre nei paesi più prosperi il freno allo sviluppo era rappresentato dalla mancanza di capitale e di credito per le attività economiche, nei paesi meno sviluppati sarebbe bastata una politica di piccoli prestiti, per promuovere l’emancipazione dall’economia di sussistenza, ampliare la base economica e accrescere la capacità imprenditoriale fra i poveri. Il frutto di questa scelta innovativa e coraggiosa è stato straordinario. Come egli stesso ha ricordato agli scettici, convinti che dopo il successo dell’attività di finanziamento nel primo villaggio, il progetto non avrebbe funzionato: “Lo abbiamo fatto in venti villaggi e ha funzionato. Ora lo abbiamo fatto in tutti gli Stati e funziona. Il ritorno del denaro è più del 99%. La banca incrementa i suoi profitti ogni anno, la gente cambia radicalmente la propria vita per il solo fatto di avere i soldi e poter sfruttare capacità, creatività e intelligenza per cambiare la propria vita”. La formula della Grameen Bank è stata sperimentata con effetti sempre analoghi e positivi in tutto il mondo. Nel Bangladesh, dove trent’anni fa sono iniziati i primi esperimenti, una parte importante dei prestiti oggi viene destinata all’acquisto di piccole, ma comode case, al miglioramento delle condizioni di vita, alla valorizzazione delle risorse del territorio, allo svolgimento profittevole di un’attività lavorativa. Questi finanziamenti hanno favorito lo sviluppo di un’economia sempre più matura e la costruzione di una società più moderna e tollerante. Muhammad Yunus, dunque, ha proposto un modello, che ha mostrato come sia possibile conciliare due elementi spesso ritenuti in antitesi: da una parte, la forza creativa dei sogni, dei desideri, della speranza e, dall’altra, il pragmatismo, l’attenzione verso la realtà in tutte le sue forme, anche quelle più crude. La motivazione della giuria del premio Nobel, secondo cui una “pace duratura non può essere ottenuta a meno che larghe fasce della popolazione non trovino modi per uscire dalla povertà”, dimostra che l’economia può dare un contributo fondamentale alla libertà e alla dignità degli uomini, se usata con intelligenza, apertura e senso della concretezza. Per questo, l’economista Muhammd Yunus è stato insignito di questo prestigioso riconoscimento.

miércoles, octubre 18, 2006

 

colonne d'Ercole


Le Colonne d'Ercole nella letteratura greca classica stavano ad indicare il limite estremo del mondo conosciuto, e oltre che un concetto geografico esprimevano un concetto filosofico di limite della conoscenza, confine da superare per il progresso scientifico.
E' quindi verosimile che che nel tempo la loro reale collocazione geografica sia stata spostata col progredire delle esplorazioni o conquiste militari. Secondo una delle interpretazioni più recenti ed accreditate nel mondo scientifico internazionale, dovuta al giornalista Sergio Frau, le Colonne d'Ercole erano originariamente individuate come due isole nello stretto di Sicilia, e solo nel terzo secolo A.C. il grande geografo Eratostene, in seguito alle campagne di Alessandro Magno nell'attuale Afganistan che espandevano a oriente il modo conosciuto, avrebbe spostato il confine occidentale del mondo greco al fine di preservare la centralità della Grecia, identificando le Colonne d'Ercole con lo stretto di Gibilterra. Legato al problema della collocazione delle Colonne d'Ercole è quello della collocazione di Atlantide, il mitico continente ricco di argento e di metalli, situato, secondo i racconti di Platone, oltre le colonne.



lunes, octubre 16, 2006

 

tartesso?


sábado, octubre 14, 2006

 

tartesso


Tartesso è uno degli innumerevoli misteri archeologici che assillano gli studiosi. Citata più volte nell'antichità, veniva collocata in Spagna, sulla foce del Guadalquivir. Tartesso, città fondata in epoca preistorica da una popolazione iberica, di cui non è rimasto quasi nulla a causa della profonda romanizzazione della penisola iberica, è ricordata in numerosi testi classici e persino nelle sacre scritture. Tuttavia, a parte qualche limitata notizia, la storia di Tartesso è in gran parte sconosciuta. Lo studio della civiltà di Tartesso parte da un riferimento contenuto nel Crizia di Platone:
"Il suo (di Atlante) gemello e nato dopo di lui, a cui era toccata l'estrema parte dell'isola verso le colonne d'Ercole, presso quella regione che ora in quel tratto di mare è detta Gadirica, ebbe il nome di Eumelo, che nella loro lingua si dice Gadiro: e dal suo nome poté denominarsi quella contrada".

In quella zona era situata la città di Gades, l'attuale Cadice, che nel testo platonico ha dato il nome a Gadiro (oppure, secondo Platone, esattamente il contrario). La città di Gades fu fondata dai Fenici di Tiro circa nel 1100 a.C., in un'isola a 30 Km a sud-ovest da Tartesso. Gades era una colonia commerciale, che intratteneva rapporti di scambio proprio con la vicina città di Tartesso, estremamente ricca di materie prime, tra le quali era molto importante l'Argento. Uno dei primi riferimenti a Tartesso si trova nella Bibbia, nel cui I libro dei Re, 22, si legge:
"Il re ( Salomone) possedeva nel Mar Rosso la flotta di Hiram, e la flotta di navi da lungo corso; ogni tre anni la flotta delle navi da Tarsis portava oro, argento, avorio, scimmie e pavoni".

Nell'antichità, Tartesso era considerata estremamente ricca e florida. La città di Tartesso, che si trovava nei pressi dello Stretto di Gibilterra, commerciava sia con l'Europa che con l'Africa ed era poco conosciuta dai Greci. I primi a giungere a Tartesso furono i Fenici come attesta questo brano di Strabone, tratto dalla " Geografia" (libro III, 2.14):
"Io sostengo che di questi luoghi abbiano dato notizia i Fenici: costoro infatti occuparono fin da prima di Omero e le regioni migliori di Iberia e Libia e continuarono a essere padroni di quei luoghi finché i Romani non ne spezzarono il dominio. Anche queste sono prove della ricchezza dell'Iberia: i Cartaginesi che conquistarono con la forza la regione, al comando di Barca, dicono gli storici, trovarono che gli abitanti della Turdetania usavano stoviglie e pithoi (vasi ad uso alimentare) di argento. Si può capire dunque come gli uomini di questa zona, in particolar modo i capi, siano celebri perché longevi grazie al benessere eccezionale in cui vivono[...] Alcuni chiamano l'attuale Carteia Tartesso".
I Cartaginesi conquistarono la città di Tartesso prima dell'invasione di Amilcare Barca (nel 237 a.C.) della Spagna, e cioè nel VI secolo a.C. Tuttavia, i Fenici praticavano le coste della Spagna ancor prima del I millennio a.C. Di Tartesso e della sua civiltà sono rimasti pochissimi reperti, ritrovati durante gli scavi del professor Adolf Schulten di Erlangen, con l'aiuto dell'archeologo Bonsor e del geologo Jessen, negli anni venti del XX secolo. Gli archeologi ritrovarono nel 1923 un anello con strane iscrizioni, con caratteri simili all'alfabeto greco ed estrusco; poi, ritrovarono un blocco di muratura, che secondo Schulten, testimoniava l'esistenza di due città, una del terzo millennio a.C. e l'altra del millecinquecento a.C. circa. Gli scavi furono interrotti a causa dell'eccessiva altezza della falda freatica e gli archeologi, perciò, arrivarono alla conclusione che la città di Tartesso dovesse essere sprofondata. I Fenici giunsero nella zona di Tartesso verso il 1100 a.C. e fondarono la colonia di Ha-Gadir (Gadir classica, l'attuale Cadice), situata, all'epoca, su un'isola e diventata, in seguito, una penisola.
Ecco cme la descrive Plinio nella "Storia Naturale": libro IV,119-120:
"Ma proprio all'estremità della Betica, a 25 miglia dall'imbocco dello stretto, c'è l'isola di Cadice, lunga, come scrive Polibio, 12 miglia e larga 3. [...] L'isola ospita una città con abitanti di cittadinanza romana, chiamati Augustani della città Giulia di Cadice (Gades). Dal lato che guarda alla Spagna, a circa 100 passi, si trova un'altra isola... in cui prima c'era la città di Cadice. E' chiamata... Giunonide dai nativi. Timeo afferma che l'isola più grande è detta da questi ultimi Cotinusa; ma la nostra gente la chiama Tarteso, e i Cartaginesi Gadir, che è poi la parola per "siepe" in punico".
Dopo la conquista cartaginese, di Tartesso non si seppe più nulla.

Si continua a parlare di Tartesso in Erodoto (libro I,163), ma la descrizione che egli ne fa non è, ovviamente, a lui contemporanea:
"Giunti a Tartesso divennero molto amici del re di Tartesso che aveva nome Argantonio, che regnò per 80 anni, e visse in tutto 120 anni. A costui i Focei divennero tanto cari che dapprima li invitò ad abbandonare il loro paese e a stanziarsi nella sua terra dove volessero, e poi, poiché non riusciva a persuaderli, avendo da loro saputo che i Medi crescevano in potenza, diede loro denari per cingere di mura la città. E ne diede senza risparmio; il circuito delle mura di Focea misura infatti non pochi stadi, ed è tutto di pietre grandi e ben connesse".
In questo passo, viene riconfermata la posizione di Tartesso (libro IV,152):
"E poiché il vento non cessava di soffiare, attraverso le colonne d'Eracle (I Sami) giunsero a Tartesso, sotto la guida di un dio".
Erodoto ribadisce l'idea generale che Tartesso fosse una zona estremamente ricca e che la merce principale da essa commerciata fosse l'argento. Tartesso era ricordata quasi come un mito, ma la sua civiltà è stata reale. Nella zona di Tartesso abitava una popolazione estremamente evoluta, sicuramente influenzata dalla città: i Turdetani. Strabone, nella sua "Geografia" (libro III, 1.6), dà delle interessanti informazioni riguardo questa civiltà :
"La regione prende il nome di Betica dal fiume o di Turdetania dai suoi abitanti; e gli abitanti, i Turdetani, sono detti anche Turduli, tanto che alcuni indicano lo stesso popolo con i due nomi, mentre altri pensano a due popoli diversi; tra questi ultimi c'è anche Polibio, secondo il quale i Turduli abitano a nord insieme ai Turdetani; tuttavia ora tra i due popoli non esiste alcuna differenza. Questi sono considerati i più colti tra gli Iberi, tanto che si servono della scrittura e conservano cronache scritte della loro storia antica, poemi e leggi in versi, vecchie, dicono, di 6000 anni; anche gli altri Iberi si servono della scrittura, ma non di un'unica forma, né del resto di un'unica lingua".
I Turdetani (o Turduli) abitavano nella zona di Tartesso, la quale, come si è detto, era situata alla foce del fiume Betis (Guadalquivir). I Turdetani possedevano un alfabeto e una lunghissima memoria storica, che testimonia una avanzatissima civiltà. Nella Spagna sud-orientale è stata ritrovata (lontano da Tartesso, ma sempre appartenente alle civiltà ispaniche) una notevole statua che è stata battezzata "la Signora di Elche". La statua è una vera opera d'arte, rifinita accuratamente, grazie alla grandissima perizia del suo autore. Come è stato scritto (libro III, 2.11):
"Non lontano da Castalo si trova il monte da cui si dice nasca il Betis, chiamato Argenteo, per via delle miniere d'argento che vi si trovano. [...] Sembra che gli antichi chiamassero il Betis Tartesso, e Gadeira, con tutte le isole vicine, Erytheia. [...] Poiché il fiume ha due sorgenti, si dice che anticamente, nella terra di mezzo, esistesse una città che si chiamava, come il fiume, Tartesso, mentre la regione si chiamava Tartesside, occupata al giorno d'oggi dai Turduli. Invece Eratostene dice che la regione contigua a Calpe si chiamava Tartesside e che Erytheia si chiamava "Isola Fortunata"".
Qui si ricorda Tartesso come zona mineraria. Inoltre, viene descritta la città come "terra fra i due fiumi", riecheggiando il mito dell'isola Fortunata, una terra ad occidente, identificabile con Atlantide. Le isole Fortunate, per di più, nell'antichità venivano identificate con le Canarie, anch'esse indicate come i resti di Atlantide.
Tartesso quindi era vista nell'antichità come un luogo di immense ricchezze e guadagni, erede di una fiorente ed evoluta civiltà, che precedeva le invasioni celtiche. L'avanzamento culturale della zona, secondo Strabone, risale addirittura al 6000 a.C. e, forse, la civiltà in quella zona della Spagna Occidentale era più antica di quanto mai sia stato detto. Infatti, la posizione atlantica dell'area di Tartesso, la sua estrema antichità e il riferimento platonico a territori atlantidei vicini alle colonne d'Ercole fanno pensare che Tartesso stessa derivi da quella civiltà atlantica conosciuta sotto il termine di Atlantide. Infatti, Atlantide, che estendeva i suoi territori fino all'Egitto e alla Grecia (e quindi, ovviamente, alla Spagna) aveva fondato probabilmente delle colonie sulla costa Iberica, tra le quali Tartesso, per il commercio minerario. Successivamente alla distruzione di Atlantide e alla fine della civiltà precedente, Tartesso deve essere rimasta isolata, ma, a causa dell'abbondanza di materie prime e della sufficiente indipendenza economica, riuscì a mantenere la propria identità culturale, derivata da quella atlantidea. Finché Tartesso restò isolata dalle popolazioni del Mediterraneo, non fu interessata da conflitti. Con l'arrivo dei Fenici, prima, e dei Greci, poi, la città finì col diventare rivale di Cartagine e fu, presumibilmente, da questa distrutta. Con la fine di Tartesso, quella cultura "atlantidea" che ancora sopravviveva scomparve, lasciando solo qualche frammento della sua memoria.
Tuttavia, non è stata ancora fornita risposta ad alcune domande. Le navi di Tartesso, malgrado la scomparsa di Atlantide, ponte verso il "continente opposto", continuavano a fare rotta verso le Americhe? I Cartaginesi, ripercorrendo le rotte tracciate dai naviganti di Tartesso, effettuarono viaggi oceanici, giungendo almeno fino alle Azzorre? La connessione tra Tartesso ed Atlantide è molto probabile e, se un giorno la città di Tartesso venisse ritrovata, fornirebbe le prime vere prove dell'esistenza della mitica Atlantide.
I Greci con la parola Tartesso indicavano l'estremo Occidente, dal quale provenivano i metalli. In un secondo tempo il nome fu localizzato nel Sud della Spagna (Andalusia), regione che tra l'altro nella Bibbia è ricordata con il nome Tarsis, e con la quale addirittura Salomone avrebbe tenuto relazioni commerciali. E' certo che i Fenici ebbero il dominio del Mediterraneo nell'VIII secolo a.C., in seguito a lotte vittoriose contro i Tartessi. Questi riuscirono ancora per breve tempo, durante le lotte tra Tiro e l'Assiria, ad avere un certo predominio. Ma, ricostituitosi l'impero coloniale fenicio, Tartesso le fu sottomessa fino al VI secolo a.C., quando nel panorama mediterraneo subentrò la talassocrazia focea. A questa successe, poi, il predominio di Cartagine, che distrusse Tartesso intorno al 500 a.C. Sembra che l'antica civiltà di Tartesso sin dai tempi preistorici fosse particolarmente evoluta. Gli scavi effettuati da Schulten e Bousar, pur rivelando notevoli tracce di quella civiltà, non arrivarono a scoprire i resti della grande città descritta dal Periplo di Avieno, vale a dire Ona Maritima, localizzata in un punto non ben precisato, vicino al delta del Guadalquivir.

 

blanca afrodita


...Y así naciste, oh Cádiz,
blanca Afrodita en medio de las olas.
Levantandas las nieblas del Océano,
pudiste en sus espejos contemplarte
como la más hermosa joven aparecida
entre la mar y el cielo de Occidente.
Traías en tus manos fenicias el olivo
y un collar para Tarsis,
para su poderosa garganta plateada.
En ella se abrasaron tus ojos, sobre ella
reclinaste la frente y fuiste rica,
la avara marinera que en el viento
a Nuestro Mar tendía, victoriosa, su nombre.

(Rafael Alberti, Ora marítima)

 

candido


"Andiamo in un altro mondo", diceva Candido, "è certamente in quello che tutto va bene. Perché bisogna ammettere che si potrebbe piangere un po' su quanto accade nel nostro, in fisica e in morale". "Vi amo con tutto il cuore", diceva Cunegonda, "ma il mio animo è ancora tutto sgomento per ciò che ho visto e sofferto". "Tutto andrà bene;" replicava Candido, "il mare di questo nuovo mondo è già migliore dei mari della nostra Europa; è più calmo, e i venti sono più costanti. E' certamente il nuovo mondo il migliore degli universi possibili". "Dio lo voglia!" diceva Cunegonda, "ma sono stata così orribilmente infelice nel mio che il cuore mi si è quasi chiuso alla speranza".

viernes, octubre 13, 2006

 

cadiz


 

canto notturno dei marinai andalusi


Da Cadice a Gibilterra,
che bella strada!
Il mare conosce il mio passo
dai sospiri
Ah, ragazza, ragazza,
quante navi nel porto di Malaga!
Da Cadice a Siviglia
quanti bei limoni!
Il limoneto mi riconosce
dai sospiri.
Ah, ragazza, ragazza,
quante navi nel porto di Malaga!
Da Siviglia a Carmona
non c'è neppure un coltello.
La mezzaluna taglia,
e il vento passa, ferito.
Ah, ragazzo, ragazzo
le onde mi rubano il cavallo!
Nelle saline morte
di te mi scordai, amor mio.
Chi vuole un cuore
domandi del mio oblio.
Ah, ragazzo, ragazzo
le onde mi rubano il cavallo!
Cadice, il mare ti copre,
non andare da quella parte.
Siviglia, mettiti in piedi
Per non annegare nel fiume.
Ah, ragazza!
Ah, ragazzo!
Che bella strada!
Quante navi nel porto
e sulla spiaggia, che freddo!

(Federico García Lorca)

 

duende


In tutta l’Andalusia, roccia di Jaén e conchiglia di Cadice, la gente parla costantemente del duende e lo scopre appena compare con istinto efficace. Il meraviglioso cantaor El Lebrijano, creatore della debla, diceva: «I giorni che canto con duende non conosco rivali»; un giorno La Malena, la vecchia ballerina gitana, sentendo suonare da Brailowsky un frammento di Bach esclamò: «Olé! Questo sì che ha duende!» e si annoiò con Gluck, con Brahms e con Darius Milhaud. E Manuel Torres, l’uomo di maggior cultura nel sangue che io abbia conosciuto, ascoltando dallo stesso Falla il suo Notturno del Generalife, pronunciò questa splendida frase: «Tutto ciò che ha suoni neri ha duende». Non c’è verità più grande.
Questi suoni neri sono il mistero, le radici che affondano nel limo che tutti noi conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da dove proviene ciò che è sostanziale nell’arte. Suoni neri, disse il popolano spagnolo, e in ciò concordò con Goethe che, parlando di Paganini, ci fornisce la definizione del duende: «Potere misterioso che tutti sentono e che nessun filosofo spiega».
Così, dunque, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: «Il duende non sta nella gola; il duende sale interiormente dalla pianta dei piedi». Vale a dire, non è questione di facoltà, bensì di autentico stile vivo; ovvero di sangue; cioè, di antichissima cultura, di creazione in atto.

 

crocevia


Cadice, il nucleo urbano più antico dell'occidente, ha sempre colpito chi la vedeva per la prima volta, ma anche chi già la conosceva a fondo, per la sua straordinaria posizione geografica.[1] Questa città, posta all'estremo margine della Spagna, affacciata sul litorale Atlantico e slanciata verso le più disparate rotte marittime, ha rappresentato a lungo il centro di traffici mondiali, il confine tra civiltà e mondi diversi, che attraverso di essa entravano in relazione, creando una fitta rete di rapporti commerciali.
Uno dei motivi essenziali dell'espansione gaditana fu costituito dalle condizioni ambientali estremamente vantaggiose - tra le migliori di tutto il continente europeo -, in cui si trovavano le sue coste quali terminali dei collegamenti marittimi con le terre d'oltremare.[2]
Certo, non fu solo la posizione strategica del luogo a determinare lo sviluppo eccezionale di Cadice, iniziato con la scoperta dell'America e giunto al suo culmine nell'epoca "dorata" del diciottesimo secolo, ma la peculiarità del luogo ha rappresentato uno dei fattori fondamentali per la comprensione di tutte le fasi della storia gaditana.[3] E il suo mare, "l'Atlantico di Cadice" - per parafrasare l'espressione degli Chaunu relativa a Siviglia -,[4] divenne sempre più, a partire dal momento del descubrimiento, l'immenso spazio attraverso cui si espandevano gli scambi mondiali, sopravanzando il Mediterraneo come centro degli interessi e dei traffici degli Stati con una struttura commerciale più avanzata. Braudel, a tale proposito, ha mostrato come questo mutamento di fondo nella storia dei mari e del loro predominio sia avvenuto con molta gradualità e come il Mediterraneo abbia contribuito alla "costruzione" dell'Atlantico degli spagnoli.[5]
La formazione della più importante via di commercio del mondo occidentale, la Carrera de Indias, che attraversava nel percorso di andata e ritorno l'Atlantico, il «mar delle Tenebre»,[6] rappresentava quasi fisicamente l'evoluzione del rapporto tra l'Europa e il Nuovo Mondo, la costituzione di una nuova economia atlantica. Economia che si sarebbe imposta, per la quantità e il valore delle merci scambiate, attraverso le flotte che solcavano l'oceano e ne collegavano i principali porti - dei quali, ben presto, entrò a far parte anche Cadice -, che fondavano il sistema dei collegamenti e dei traffici internazionali.[7]
La nuova via di navigazione non si limitava a favorire l'irradiamento delle comunicazioni marittime verso le lontane mete d'oltreoceano, ma delineava un evento generale di grande valore innovativo. Infatti, il percorso del traffico transoceanico non rappresentava solo il tragitto di andata e ritorno delle navi mercantili che collegavano il porto gaditano con quelli di Veracruz, Portobelo o Cartagena, ma era il mezzo concreto attraverso cui si stabilivano relazioni economiche tra due società, producendo conseguenze di notevole portata su ciascuna di esse.[8]
Cadice, grazie alla sua particolare condizione di città posta all'incrocio delle rotte commerciali atlantiche, tra l'oriente e l'occidente, tra il nord e il sud del mondo, acquisì il ruolo di uno dei principali - se non il più importante - centri di scambio europei, svolse una funzione economica e, poi, anche finanziaria, di primo piano durante il predominio coloniale spagnolo nei territori americani. Infatti: «durante el siglo XVIII y primer cuarto del siglo XIX, hasta la Independencia colonial, el comercio con América tiene un nombre propio: Cádiz. La ciudad y su bahía, casi dos siglos a la sombra del monopolio sevillano, emergen a un protagonismo universal al convertirse en uno de los grandes centros del comercio mundial de la época y uno de los principales puertos europeos. Durante la centuria alcanzó el más elevado grado de urbanismo y fue ciudad cosmopolita con comerciantes, casas de comercio y corresponsales de las principales plazas europeas a la vez que crisol de la burguesía mercantil española. Pero al mismo tiempo era el primer centro financiero del país, vinculado no sólo a financiar, directamente o por intermediación, el comercio colonial sino ligado a lo que hubieron de ser importantes innovaciones».[9]
Città popolata da eccellenti marinai, pescatori, trasportatori e, perfino, corsari, è con l'età moderna che Cadice iniziava la sua ascesa, prima con l'affermazione del monopolio negli scambi con l'Africa del nord e, poi, con la conquista del mercato delle "Indie", stabilendo un rapporto simbiotico con Siviglia, di cui in quell'epoca rappresentava l'altra faccia, e avviando con questa una sorta di duopolio commerciale durato circa tre secoli.[10]
Durante il primo periodo di espansione degli scambi coloniali, Cadice si limitò a svolgere le funzioni di porto di scalo, lasciando a Siviglia, sede di una fiorente burguesía de negocios, il ruolo di porto commerciale: la striscia di terra gaditana, allora, era l'approdo più favorevole per la sosta e il riposo, per l'approvvigionamento e la riparazione delle navi, ma non era in grado, anche a causa delle scarse possibilità di difesa e delle difficoltà delle comunicazioni con l'interno, di fungere da terminale dei traffici transoceanici.
In questa fase, Cadice, nonostante il monopolio mercantile del porto di Siviglia, diede impulso alla propria crescita economica come vera metropoli del commercio illecito, organizzando una rete di attività "sommerse" di distribuzione e favorendo la diffusione del contrabbando.
Tuttavia, anche dal punto di vista degli scambi commerciali, doveva scoccare l'ora di Cadice, che, a partire dalla seconda metà del XVII secolo, iniziò a sostituirsi a Siviglia come cabecera del mercato coloniale, come «puerto y puerta de las Indias». In questo secondo periodo di sviluppo impetuoso delle attività di scambio, la baia gaditana assunse sempre più la funzione di vero e proprio «emporio del orbe», come la descriveva fray Gerónimo de la Concepción,[11] divenendo la città più "americana" d'Europa.[12] Cadice era arrivata in ritardo all'avventura d'oltremare, attraverso fasi diverse in cui aveva mutato la sua stessa identità di città commerciale e aveva portato a compimento - attraverso un lento, ma inesorabile, processo di trasformazione - il ciclo storico di principale mercato coloniale europeo.
La città gaditana, in tutto l'arco della sua storia, in particolare di quella moderna e contemporanea, è stata modellata dall'attività marittima e commerciale, tanto da far sostenere, a più riprese, che Cadice è sempre stata ciò che è stato il suo commercio. O che dal XVI secolo fino all'inizio del XIX, Cadice è vissuta ed ha prosperato in virtù della sua posizione nel commercio americano. O, ancora, che la singolarità di Cadice in tutta la sua trimillenaria storia scaturisce dal fatto di essere una delle pochissime città spagnole (se non l'unica) in cui la funzione mercantile predominava in modo esclusivo. O, infine, che i due fatti eminentemente geografici che hanno favorito lo sviluppo di Cadice sono stati il suo carattere marittimo e insulare e la sua collocazione in uno dei grandi crocevia delle comunicazioni mondiali.[13]
Questo riaffermato collegamento tra condizioni geografiche e traffici commerciali, tra mare, navigazione e attività di scambio, è il filo da riannodare per ricostruire nelle loro giuste dimensioni gli avvenimenti economici che fecero di Cadice un caso di crescita senza precedenti, di espansione e arricchimento, avvenuti in assenza delle risorse naturali e dei fattori endogeni che hanno caratterizzato lo sviluppo capitalistico delle aree europee più avanzate. Infatti, l'ubicazione e le altre peculiarità ambientali del centro gaditano ne hanno caratterizzato l'evoluzione, fin dall'inizio, imponendo la realizzazione di una economia ad una sola dimensione.[14]
Cadice, priva di attività primarie ad eccezione della pesca e con un settore secondario limitato ad alcune iniziative artigianali, aveva fatto del commercio «el norte y la guía de todo su quehacer económico». E il predominio dell'attività mercantile aveva fatto sentire i suoi effetti su tutti gli aspetti della vita cittadina: sull'assetto urbanistico e sull'edilizia, sulla variegata composizione della popolazione, sulla specificità di una struttura sociale tanto elementare, sulla mancanza di una dialettica tra la città e la campagna, sulla cultura e sui comportamenti sociali.
La città, cresciuta secondo i canoni cartesiani, di rigide geometrie rette, appena addolcite dalla grazia e dalla creatività andalusa, era caratterizzata da un'edilizia verticale, da lunghe e fitte strade che si intersecavano tra loro alla ricerca dello sbocco verso il mare e da edifici in cui si trovavano riuniti il negozio, il magazzino, l'abitazione del commerciante e la torretta per scrutare l'orizzonte in attesa dell'arrivo di navi e mercanzie.[15]
La popolazione era composta in parte rilevante da forestieri, giunti in città con lo scopo di dare avvio ad un'attività commerciale; la stratificazione sociale, poi, non era particolarmente articolata, basandosi su una borghesia mercantile diffusa, con livelli di reddito medi; la struttura economica, polarizzata sul commercio, infine, in assenza di un'agricoltura e di un'industria significative, non favoriva l'insorgere dei fenomeni di dialettica sociale e dei conflitti, propri di realtà più complesse.
Altri aspetti della vita cittadina, come il fervore associativo e culturale - Cadice era un esempio di grande maturità e dinamismo intellettuale, con i suoi tre teatri, le biblioteche, le istituzioni scientifiche, gli svariati caffè e circoli letterari, i giardini botanici -, o, come l'animazione delle strade e dei paseos, la ricercatezza dei vestiti e il lusso, l'apertura alla presenza, alla lingua e alle abitudini degli stranieri, dimostravano che l'ambiente gaditano era stato influenzato dal cosmopolitismo mercantile e plasmato dalla contaminazione di culture e civiltà diverse, tipiche di una città in cui prevaleva, in senso assoluto, il commercio.[16]
La perdita dei domini coloniali d'oltremare comportò, nel terzo decennio del XIX secolo, la caduta verticale dell'attività di scambio e il definitivo ridimensionamento di Cadice come città mercantile per eccellenza, spingendola ai margini del processo di sviluppo europeo e costringendola in uno stato di sempre più grave prostrazione.[17]
Il carattere del commercio si andò rapidamente trasformando: l'importanza del porto gaditano venne limitata ai soli obiettivi dei traffici interni e dei collegamenti con le Canarie. Si riduceva, cioè, la funzione distributiva e di scambio della città ad un'estensione di mercato di natura esclusivamente regionale e locale.
Cadice, privata delle sue comunicazioni con i territori d'oltreoceano, senza più l'Atlantico e le colonie, senza quel mix che l'aveva fatta unica e grande, si avvitò progressivamente in una spirale di decadenza e di inerzia, entrando nel periodo più oscuro della sua vita degli ultimi quattro secoli.
Il ciclo della straordinaria ed irripetibile vicenda storica della «capitale mercantile d'Europa», come pure è stata chiamata, si era chiuso. E Cadice, condannata ad un pesante ritardo nei confronti delle grandi aree produttive europee e ad un isolamento sempre più evidente rispetto ai processi di liberalizzazione degli scambi, pur non rinunciando alla speranza di un ritorno allo splendore del "secolo d'oro", continuava a guardare con nostalgia al periodo della sua affermazione e supremazia. Questa sensazione così forte pervadeva anche chi si trovava di passaggio nella baia gaditana e riusciva a cogliere alcuni tratti peculiari di una città, che viveva la sua fase di declino con un atteggiamento solo apparente di distacco.[18]



[1] «Scesi sotto coperta per pigliare il canocchiale; quando salii vidi Cadice. La prima impressione che mi fece fu di mettermi in dubbio se fosse o non fosse una città; poi risi; poi mi voltai verso i miei compagni di viaggio coll'aria di chi domanda che lo rassicurino che non s'è ingannato. Cadice sembra un'isola di gesso. É una gran macchia bianca in mezzo al mare senza una sfumatura oscura, senza un punto nero, senza un'ombra; una macchia bianca tersa e purissima come una collina coperta di neve intatta che spicchi sur un cielo color di berillo e di turchina in mezzo a una vasta pianura allagata. Una lunga e sottilissima striscia di terra l'unisce al continente; da tutte le altre parti è bagnata dal mare, come un bastimento sul punto di far vela, non trattenuto più alla riva che da una catena». Così ne rendeva l'immagine Edmondo De Amicis, nelle sue impressioni di un viaggio in Spagna, (E. De Amicis, Spagna, Firenze, G. Barbèra Editore, 1928, pp. 378-379).

[2] Le coste del golfo di Cadice presentano condizioni straordinarie - a cui si possono paragonare solo quelle del litorale sud-orientale del Portogallo - per una navigazione a vela transoceanica. In particolare, nei mesi da maggio ad ottobre, il vento di prealisio rende estremamente favorevole il viaggio verso le Canarie.

[3] La descrizione che ne fa García-Baquero mostra in tutta evidenza la felice contraddizione tra un'ubicazione (asientamento) assai sfavorevole e una disposizione (situación) della città estremamente propizia: «Las características geográficas del sitio sobre el que se levanta la ciudad no pueden ser más desfavorables. Ausencia de agricultura, debido a la naturaleza geológica de su suelo, escasez de agua, tendencia al aislamiento, imposibilidad material de crecimiento, son los rasgos que caracterizan el lugar en el que se asienta la ciudad. (...) Cádiz no es un producto de su asentamiento, sino de su situación. En efecto, limitada en el sentido horizontal, comprimida en el perímetro de sus murallas, prisionera del mar, Cádiz era una ciudad que no podía subsistir por sí misma. Ahora bien, precisamente este mismo mar que la aprisionaba le abría, en compensación, un cúmulo de posibilidades. De acuerdo con las peculiaridades que Braudel concede a las penínsulas, su relativo aislamiento respecto a las masas continentales queda compensado por su apertura ilimitada hacia el mar. Cádiz no podía ser una excepción. Nació ya con una obligada vocación marinera y mercantil. (...) Sin agricultura ni industria, carente de lo más necesario para la vida, Cádiz va a depender estrechamente, a lo largo de toda su historia, de su única fuente de subsistencia: el mar» (A. García-Baquero González, Comercio colonial y guerras revolucionarias. La decadencia económica de Cádiz a raíz de la emancipación americana, Sevilla, Escuela de Estudios Hispano-Americanos, 1972, p. 29).

[4] Cfr. H. Chaunu, P. Chaunu, Séville et l'Atlantique (1504-1650), 12 voll., Paris, S.E.V.P.E.N., 1955-1960.

[5] Braudel, intitolando un paragrafo della sua opera su Civiltà e imperi del Mediterraneo "Parecchi Atlantici", rileva: «L'Atlantico del secolo XVI è l'associazione, la coesistenza più o meno perfetta di molti spazi in parte autonomi. (...) In qual modo questi oceani mettono capo alla vita del Mediterraneo, e in qual modo quest'ultimo agisce attraverso i loro spazi immensi? La storia tradizionale presentava in passato tutti questi oceani, in blocco, come il nemico numero uno del Mare Interno, in quanto lo spazio più vasto aveva soggiogato lo spazio di dimensioni minuscole. Ciò significa semplificare le cose. Esagerazione per esagerazione, sarebbe meglio dire che il Mediterraneo ha dominato a lungo il suo immenso vicino e che la sua decadenza si spiega, tra l'altro, col fatto che quel dominio un giorno venne meno. (...) Per tutto il secolo XVI, esso non è quell'universo abbandonato e impoverito che i viaggi di Colombo e di Vasco de Gama avrebbero bruscamente rovinato. Al contrario, esso costruisce l'Atlantico e ricrea e proietta le proprie immagini nel Nuovo Mondo iberico. (...) Il Mediterraneo ristretto, nel cuore dell'immenso spazio che l'avvolge, rimane fino al 1600 un'economia viva, agile, dominante. La grande storia non l'ha abbandonato precipitosamente, agli inizi del secolo, con armi e bagagli. La vera ritirata suonerà, per esso, soltanto più tardi» (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1976, vol. I, pp. 229-231 e p. 236; ed. orig. La Mediterranée et le Monde méditerranéen à l'époque de Philippe II, Paris, Librairie Armand Colin, 1949).

[6] Era questa l'espressione con la quale gli arabi indicavano l'oceano Atlantico.

[7] Cfr. L. N. McAlister, Dalla scoperta alla conquista. Spagna e Portogallo nel Nuovo Mondo 1492-1700, Bologna, il Mulino, 1992, p. 310 e pp. 609-617; ed. orig. Spain and Portugal in the New World, 1492-1700, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1985.

[8] Cfr. J. Fontana, Prólogo, in A. García-Baquero González, Cádiz y el Atlántico (1717-1778). El comercio colonial español bajo el monopolio gaditano, Cádiz, Diputación Provincial de Cádiz, 1988, tomo I, p. XVIII.

[9] A. M. Bernal, La financiación de la Carrera de Indias (1492-1824). Dinero y crédito en el comercio colonial español con América, Sevilla, Fundación El Monte, 1992, p. 294.

[10] Infatti, come è stato osservato: «Si Sevilla primero y Cádiz, tímidamente en un principio y en espléndida plenitud después, se convirtieron en claves interpretativas del mundo - en el aspecto histórico y en el económico -, fue justamente gracias a lo que ocurrió a partir de 1492. Y en eso - el hallazgo de un Nuevo Mundo - tuvieron (...) un papel fundamental. (...) Con todo, (...) hay motivos para hablar de un puerto simbiótico Sevilla-Cádiz, con participación de Sanlúcar (en la desembocadura del río de Sevilla) y del Puerto de Santa María (en la bahía gaditana). Si Sevilla fue preferida sobre Cádiz durante dos siglos y Cádiz sobre Sevilla durante uno, ello fue por motivos político-estratégicos; pero las piezas estaban colocadas de tal modo, que el doble puerto sería por espacio de más de 300 años el principal pedúnculo del Viejo Mundo en sus relaciones con el Nuevo, y hasta cierto punto, en sí mismo, una mezcla de mundos también» (J. L. Comellas, Sevilla, Cádiz y América. El trasiego y el tráfico, Málaga, Editorial Arguval, 1992, p. 21 e p. 16).

[11] Cfr. G. de la Concepción, Emporio de el Orbe. Cádiz ilustrada, investigación de sus antiguas grandezas, discurrida en concurso de el general Imperio de España, Amsterdam, Imprenta de Joan Bus, 1690.

[12] «Cádiz se erigió en el núcleo mercantil más importante y dinámico del litoral español y en el verdadero nexo de unión entre toda la Europa comercial y marítima de un lado y el vasto continente americano del otro, concentrando y canalizando, como se decía en una memoria comercial francesa de la época, "tous les échanges qui constituent le grand commerce que ces deux parties du globe font entre elles"» (A. García-Baquero González, Cádiz según las Respuestas Generales del Catastro de Ensenada, in Cádiz 1753, Madrid, Tabapress, 1990, pp. 15-16).

[13] Cfr. A. Domínguez Ortiz, La burguesía gaditana y el comercio de Indias desde mediados del siglo XVII hasta el traslado de la Casa de Contratación, in La burguesía mercantil gaditana (1650-1868), Cádiz, Instituto de Estudios Gaditanos, 1976; J. Gómez Crespo, Importancia marítima de Cádiz, especial en el aspecto comercial y militar, in Las Juntas literarias de Cádiz, 1942-1945, Cádiz, Establecimientos Cerón y Librería Cervantes, 1946, p. 197.

[14] Come ha acutamente sintetizzato Ramos Santana: «La posición y características de Cádiz - un islote rocoso situado en la boca del Mediterráneo, la ruta marítima que más influencia ha ejercido en la historia del hombre - condicionó desde los mismos momentos de su mítica fundación la trayectoria temporal de la vieja ciudad de Hércules. Desde entonces, Cádiz quedó ligada a la navegación y al intercambio comercial. Una ligazón que se fue potenciando con el paso de los siglos hasta convertirse en su sello principal y prácticamente único tras el descubrimiento y conquista de América» (A. Ramos Santana, Introducción, in D. Conte Domecq, Carteles de Barcos, Cádiz, Ingrasa y Diario de Cádiz, 1992, p. 11).

[15] I quartieri di Cadice, nel corso del XVIII secolo, si svilupparono in conformità ai canoni cartesiani. Purtuttavia, si trattava di un modello urbano del tutto peculiare, nel quale le strade erano "quasi" rette, gli angoli delle piazze erano "quasi" a novanta gradi, le piazze erano "quasi" quadrate: questo disegno era il portato della creatività andalusa, che riusciva a conferire dolcezza e originalità anche all'applicazione di principi apparentemente rigidi.

[16] Cfr. J. A. de los Heros Fernández, Discursos sobre el comercio, Madrid, Imprenta de Antonio Espinosa, 1790.

[17] Infatti, la prosperità di Cadice dipendeva quasi esclusivamente dal suo commercio, che, a sua volta, si fondava sulle relazioni con le colonie d'oltremare. Visto questo stretto legame, qualsiasi interruzione delle vie di navigazione atlantiche e dei rapporti con i territori americani si rifletteva pesantemente sull'andamento delle attività mercantili gaditane.

[18] De Amicis rende bene questa nuova atmosfera della città: «In verità, io ero ben lontano dall'immaginare che fosse così gaia e ridente questa terribile e sventurata Cadice, arsa dagl'Inglesi nel secolo decimosesto, bombardata sulla fine del decimottavo, devastata dalla peste, e poi ospite delle flotte di Trafalgar, sede della giunta rivoluzionaria durante la guerra dell'Indipendenza, teatro di stragi orrende nella rivoluzione del 1820, bersaglio delle bombe francesi nel 1823, e antesignana della rivoluzione che sbalzò dal trono i Borboni, e sempre inquieta e turbolenta e prima fra tutte a lanciare il grido della battaglia. Di tante vicende e di tante lotte non restano che palle di cannone confitte nei muri, poiché su tutte le altre traccie della distruzione è passato l'inesorabile pennello, che copre d'un velo bianco ogni vergogna. (...) Ma il tempo ha fatto ben di peggio che togliere a Cadice i monumenti antichi: le tolse il commercio e le ricchezze, dopo che la Spagna perdette i suoi possedimenti d'America; ed ora Cadice giace là inerte sul suo scoglio solitario, aspettando invano le mille navi che venivano un giorno imbandierate e festose a recarle i tributi del nuovo mondo» (E. De Amicis, Spagna, cit., pp. 381-382).

jueves, octubre 12, 2006

 

clarice



Clarice, città gloriosa, ha una storia travagliata. Piú volte decadde e rifiorí, sempre tenendo la prima Clarice come modello ineguagliabile d'ogni splendore, al cui confronto lo stato presente della città non manca di suscitare nuovi sospiri a ogni volgere di stelle. Nei secoli di degradazione, la città, svuotata dalle pestilenze, abbassata di statura dai crolli di travature e cornicioni e dagli smottamenti di terriccio, arrugginita e intasata per incuria o vacanza degli addetti alla manutenzione, si ripopolava lentamente al riemergere da scantinati e tane d'orde di sopravvissuti che come topi brulicavano mossi dalla smania di rovistare e rodere, e pure di racimolare e raffazzonare, come uccelli che nidificano. S'attaccavano a tutto quel che poteva essere tolto di dov'era e messo in un altro posto per servire a un altro uso: i tendaggi di broccato finivano a fare da lenzuola; nelle urne cinerarie di marmo piantavano il basilico; le griglie in ferro battuto sradicate dalle finestre dei ginecei servivano ad arrostire carne di gatto su fuochi di legna intarsiata. Messa su coi pezzi scompagnati della Clarice inservibile, prendeva forma una Clarice della sopravvivenza, tutta tuguri e catapecchie, rigagnoli infetti, gabbie di conigli. Eppure, dell'antico splendore di Clarice non s'era perso quasi nulla, era tutto lí, disposto solamente in un ordine diverso ma appropriato alle esigenze degli abitanti non meno di prima. Ai tempi d'indigenza succedevano epoche piú giulive: una Clarice farfalla suntuosa sgusciava dalla Clarice crisalide pezzente; la nuova abbondanza faceva traboccare la città di materiali edifici oggetti nuovi; affluiva nuova gente di fuori; niente e nessuno aveva piú a che vedere con la Clarice o le Clarici di prima; e piú la nuova città s'insediava trionfalmente nel luogo e nel nome della prima Clarice, piú s'accorgeva d'allontanarsi da quella, di distruggerla non meno rapidamente dei topi e della muffa: nonostante l'orgoglio del nuovo fasto, in fondo al cuore si sentiva estranea, incongrua, usurpatrice. Ecco allora i frantumi del primo splendore che si erano salvati adattandosi a bisogne piú oscure venivano nuovamente spostati, eccoli custoditi sotto campane di vetro, chiusi in bacheche, posati su cuscini di velluto, e non piú perché potevano servire ancora a qualcosa ma perché attraverso di loro si sarebbe voluto ricomporre una città di cui nessuno sapeva piú nulla. Altri deterioramenti, altri rigogli si susseguirono a Clarice. Le popolazioni e le costumanze cambiarono piú volte; restano il nome, l'ubicazione, e gli oggetti piú difficili da rompere. Ogni nuova Clarice, compatta come un corpo vivente coi suoi odori e il suo respiro, sfoggia come un monile quel che resta delle antiche Clarici frammentarie e morte. Non si sa quando i capitelli corinzi siano stati in cima alle loro colonne: solo si ricorda d'uno d'essi che per molti anni in un pollaio sostenne la cesta dove le galline facevano le uova, e di lí passò al Museo dei Capitelli, in fila con gli altri esemplari della collezione. L'ordine di successione delle ere s'è perso; che ci sia stata una prima Clarice è credenza diffusa, ma non ci sono prove che lo dimostrino; i capitelli potrebbero essere stati prima nei pollai che nei templi, le urne di marmo essere state seminate prima a basilico che a ossa di defunti. Di sicuro si sa solo questo: un certo numero d'oggetti si sposta in un certo spazio, ora sommerso da una quantità d'oggetti nuovi, ora consumandosi senza ricambio; la regola è mescolarli ogni volta e riprovare a metterli insieme. Forse Clarice è sempre stata solo un tramestio di carabattole sbrecciate, male assortite, fuori uso.

da: Le Città Invisibili di Italo Calvino

 

rafael alberti


 

globalizzazioni




"Un quadro storico potrebbe essere opportuno [...] per dimostrare che la globalizzazione non è particolarmente nuova né, in generale, una follia. Per migliaia di anni, viaggi o migrazioni, scambi di merci o di conoscenze acquisite hanno rappresentato una forma di globalizzazione, che ha contribuito al progresso dell'umanità. E fermarla avrebbe arrecato un danno irreparabile. Ancora, nonostante oggi la globalizzazione sia considerata da molti un correlato del predominio Occidentale, l'esame storico può aiutarci a concepire la possibilità che il processo si svolga nel verso contrario"
(Sen, A., Globalizzazione e libertà)


Il concetto di 'globalizzazione', così come conosciuto ed ampiamente divulgato oggi, è legato solo all'attualità immediata o può essere, per così dire, retrodatato e verificato alla luce di eventi storici di primaria importanza, accaduti nel corso di varie fasi, perlomeno, dell'epoca moderna e contemporanea dell'umanità? Dalla risposta a questa domanda, che a prima vista potrebbe apparire impropria o banale, dipende il punto di vista dal quale ci si colloca nell'affrontare un tema –ed un termine– continuamente ricorrente e, al tempo stesso, fortemente controverso. Il metodo utilizzato, il tipo di approccio al problema e gli strumenti per approfondirne i contenuti mai come in questo caso sono stati tanto decisivi per caricare di significato e rendere scientificamente interessante questo impegno di analisi, al di fuori di ogni moda, impeto od abbaglio contingente.

A proposito dei secoli più remoti, Amartya Sen ha ricordato che: "Attorno all'anno Mille la diffusione globale della scienza, della tecnologia e della matematica stava cambiando la natura del vecchio mondo, ma la disseminazione seguiva, in larga misura, una direzione opposta a quella attuale. Ad esempio, alte tecnologie dell'anno Mille quali carta e stampa, sestante e polvere da sparo, orologio e ponte sospeso a catene di ferro, aquilone e bussola magnetica, carro su ruote e ventola erano note e ampiamente utilizzate in Cina, ma quasi sconosciute altrove. La globalizzazione le ha diffuse nel mondo, Europa compresa. La stessa cosa avvenne per la matematica. Il sistema decimale nacque e fu sviluppato in India tra il secondo e il sesto secolo e, poco più tardi, venne impiegato anche dagli arabi. Queste innovazioni matematiche raggiunsero l'Europa perlopiù negli ultimi decenni del decimo secolo e cominciarono ad avere un impatto consistente all'inizio dello scorso millennio. Successivamente avrebbero avuto una parte di primo piano nella rivoluzione scientifica che ha favorito la trasformazione dell'Europa. In effetti, l'Europa sarebbe molto più povera –dal punto di vista economico, scientifico e culturale– se avesse opposto resistenza alla globalizzazione della matematica, della scienza e della tecnologia di quel tempo"[1].

Due esempi della nuova ed impetuosa fase della attuale globalizzazione sono rappresentati dall'affermazione di un mercato mondiale e dalla realizzazione della cosiddetta 'rivoluzione telematica', da un lato, e dall'accelerazione del processo di integrazione europea, dall'altro.

Il primo fenomeno, quello che a pieno titolo viene riconosciuto come la testimonianza più evidente della globalizzazione, dipende dall'intreccio tra l'evoluzione del settore delle Information and Communications Technology (ICT) e l'organizzazione dell'economia, che ha portato alla nascita della Net-Economy[2], ossia di un sistema nel quale la disponibilità di informazioni in tempo reale e la capacità di diffusione delle comunicazioni –e degli scambi– senza limiti geografici e/o spaziali sono le basi per il successo di qualunque iniziativa economica, specialmente di tipo privato. C'è chi sottolinea, a questo scopo, il carattere 'imperiale' del nuovo sistema economico: una sorta di aggiornamento nella continuità del sistema capitalistico, di fronte alla crisi degli strumenti tradizionali di formazione e di controllo dei processi di accumulazione. C'è, altresì, chi mette in evidenza un cambiamento di paradigma tra il precedente sistema economico, basato sull'obiettivo del conseguimento di livelli sempre più elevati di profitto, e la nuova, più complessa configurazione, in cui assume assoluta rilevanza il possesso di conoscenze, o meglio, la capacità di comprendere l'andamento del sapere (know how) sociale. Come è stato osservato: "Sullo sfondo, vedremo emergere il profilo ambiguo delle nuove élites culturali; non più contraddistinte dal possesso di un complesso organico di saperi, ma solo dalla capacità di intercettare prima degli altri le tendenze e le novità del momento"[3].

Lo stesso movimento che si è sviluppato parallelamente al procedere della globalizzazione, non ha un carattere univoco: contro indiscriminatamente –l'aspetto no global– o a favore di un processo 'governato' a partire dal basso –l'aspetto new global–? O, ancora, più semplicemente, il mero utilizzo, l'appropriazione degli strumenti della globalizzazione per frenare il processo stesso? Viene allora da chiedersi se "il movimento è veramente contro la globalizzazione, come la sua retorica sembrerebbe suggerire", visto che "le stesse proteste antiglobalizzazione sono di fatto uno degli eventi più globalizzati del mondo contemporaneo"[4]. Tuttavia, la risposta a tali quesiti non cambia il quadro di riferimento del fenomeno, né la valutazione approfondita ed in progress che occorre effettuare per comprenderne i vincoli e le opportunità, la reale consistenza in una prospettiva storica e non solo la virtuale esistenza.

Il secondo fenomeno, quello che ha comportato un risoluto passo in avanti nel processo di integrazione economica dell'Unione europea, ha nell'adozione dell'euro il suo simbolo più rappresentativo. Il sistema economico (e politico) sorto e consolidatosi per effetto degli accordi di Bretton Woods era incentrato sulla prevalenza di un solo paese –gli USA– e di una sola moneta –il dollaro– sullo scenario internazionale. Questa scelta aveva definitivamente scalzato l'organizzazione precedente, fondata sull'alternanza (o sulla compresenza) di alcune tra le nazioni più sviluppate al posto chiave di guida del sistema economico e finanziario internazionale. Nel corso della seconda metà del XIX secolo, a fronte di un progressivo rafforzamento dell'area del dollaro, si erano verificati fenomeni contrastanti, come l'organizzazione del mercato comune dei paesi dell'Europa orientale (Comecon), l'ascesa dell'economia giapponese e dello yen, fino alla crescita dell'unione monetaria europea e alla nascita dell'euro. La scelta di una moneta unica per una parte ampia del Vecchio Continente ha rappresentato il più evidente punto di arrivo delle teorie di tipo funzionalista –che fondavano il processo di integrazione europea su una visione gradualista, fatta di accordi settoriali e di un'inclinazione per i temi economici–, ma soprattutto la concreta dimostrazione di una volontà di crescita che ha portato al definitivo superamento delle vecchie barriere interne e degli ostacoli agli scambi intraeuropei, oltre che alla ripresa di intense relazioni tra l'Europa ed il resto del mondo. Insomma, l'euro ha assunto il significato di un simbolo di unificazione e di autonomia, di estensione della scala competitiva e di affermazione del ruolo di 'potenza' europea, sia pure in prospettiva. In quest'ultima fase, in particolare, il consistente apprezzamento della moneta europea nei confronti del dollaro sembra mostrare una nuova possibilità di evoluzione del sistema e, in particolare, l'opportunità di far assumere all'euro il valore di un bene di rifugio di particolare importanza, come è avvenuto già da lungo tempo per l'oro.

Questa assoluta e, per certi versi, imprevista novità –al di là di ogni spropositato ed improprio ottimismo– sembra prefigurare l'apertura di una nuova fase dei rapporti internazionali, all'interno dei quali potrebbe venir meno un equilibrio consolidato ed affermarsi una nuova dinamica delle economie europee, che già nel corso degli anni ottanta avevano conquistato la centralità della scena. In poche parole, al quadro di lunga e incontrastata egemonia del dollaro si è aggiunto un nuovo contesto di graduale abitudine al sistema della moneta unica europea e un ruolo sempre più autonomo e 'solido' dell'euro. Tuttavia, un bilancio definitivo sui vantaggi, ma anche sui problemi, causati dalla forza (e dall'apprezzamento) dell'euro potrà essere tracciato solo tra qualche tempo. Intanto, vale la pena di sottolineare che, se nel mondo delle monete ormai vi è un dominio tendenzialmente paritario tra euro e dollaro, nel mondo 'reale' l'Europa deve continuare a costruire un'economia all'altezza della sua moneta. Su questo terreno, oggi ancora favorevole agli USA, si giocherà la partita decisiva per ogni futuro ruolo di leadership globale.

A questo punto, va fatta una valutazione di fondo: se, al di là di queste ultime vicende, vi siano state o meno altre fasi di estensione dello spazio di azione e di iniziativa dell'uomo, di accelerazione dei ritmi di attività e di crescita delle sue 'fabbriche'. Se, in poche parole, la 'globalizzazione' sia un fenomeno piuttosto recente o, al contrario, si sia già presentato, sotto forme e dimensioni diverse, in altre epoche della storia.

Dal punto di vista teorico, oltre alla novità assoluta sul piano generale rappresentata –durante il secolo scorso– dalla scuola delle "Annales"[5], va evidenziato specificamente il contributo di Immanuel Wallerstein[6], che ripensava la storia in un contesto molto generale, dando sostanza al termine coniato da Braudel per definire il Mediterraneo del XVI secolo, nella sua estensione più vasta: l'économie-monde[7]. A questo proposito, Braudel osservava che: "per Immanuel Wallerstein non esiste altra economia-mondo al di fuori di quella europea, che si è formata solo a partire dal XVI secolo, mentre per me il mondo era già diviso in zone economiche, più o meno centralizzate, più o meno coerenti, cioè in parecchie economie-mondo coesistenti fin dal Medioevo e persino dall'antichità, cioè molto prima che l'uomo europeo possedesse una conoscenza esatta della totalità dell'estensione terrestre"[8]. Tuttavia, questa valutazione non impediva a Braudel, nell'introduzione al volume dello stesso Wallerstein, di convenire sul fatto che: "Ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio. Ma gli spazi si incastrano gli uni dentro gli altri, si saldano fra loro, sono legati da rapporti di dipendenza. Se si vuol trovare uno spazio autonomo, coerente nella sua sola estensione, si è condotti necessariamente o verso l'infinitamente piccolo, a condizione che ci sia una strada pressoché autonoma, o verso lo spazio più vasto coerente, in ragione dei suoi scambi e delle sue concordanze, ma separato da altri spazi della stessa vastità, che costituisce un universo a sé nel quale le economie, le società e gli spazi sono connessi gli uni con gli altri e si differenziano dal resto del mondo"[9].

Si tratta, dunque, di una definizione che apre nettamente le porte a quella di 'globalizzazione' (o 'mondializzazione', nel significato francofono), intesa come una "evidente perdita di confini dell'agire quotidiano nelle diverse dimensioni dell'economia, dell'informazione, dell'ecologia, della tecnica, dei conflitti transculturali e della società civile, cioè, in fondo qualcosa di familiare e nello stesso tempo inconcepibile, difficile da afferrare, ma che trasforma radicalmente la vita quotidiana, con una forza ben percepibile, costringendo tutti ad adeguarsi, a trovare risposte"[10]. Quest'ultima indicazione fa riferimento ad un fenomeno di carattere generale: la libera circolazione delle idee, delle merci e delle persone in uno spazio sempre più 'universale', che tende a coincidere con l'intero pianeta. In questa accezione, la globalizzazione coinvolge l'esperienza umana nel suo complesso e va ben oltre una classificazione di mero stampo economicistico, riguardando le attività e le relazioni dell'umanità in tutti i loro aspetti, la cosiddetta 'società globale': gli stessi rischi connessi con il processo di 'globalizzazione' possono –visti come opportunità– dare impulso ad una 'seconda modernità', fondata sui valori di uguaglianza, libertà, conoscenza e capacità di informazione.

In ogni caso, la riflessione fin qui condotta porta ad affermare, parafrasando un'espressione di Wallerstein, che la 'mondializzazione' non è affatto una novità[11]. Se si vuole semplificare il ragionamento, seguendo una schematizzazione molto elementare, si possono individuare almeno altri due periodi –oltre l'attuale– in cui i termini di tempo e spazio hanno mutato profondamente il loro carattere, si sono 'accorciati' considerevolmente: l'epoca della scoperta del Nuovo Mondo e la fase della cosiddetta 'rivoluzione industriale'[12].

L'inizio dell'Età Moderna e, in particolare, le due date del 1492 –l'anno della scoperta dell'America– e del 1519 –l'anno di inizio della prima circumnavigazione del globo terrestre– rappresentano lo spartiacque per lo spostamento del baricentro dei traffici dal Mediterraneo all'Atlantico (quindi, per il primo importante ampliamento dell'economia mondiale) e segnano l'apertura di una fase di mondializzazione dell'economia mediante il commercio "triangolare" tra la madrepatria, le colonie ed il mercato europeo. C'è da dire che la scoperta dell'America e il prolungamento dei suoi effetti durante tutto l'arco di tempo dell'Età Moderna avevano contribuito a far assumere un valore del tutto inedito –presente solo per alcuni aspetti nella volontà espansionistica delle crociate e delle vie delle spezie nel Medioevo– alla ricerca di nuovi spazi e di nuove relazioni sul globo terraqueo. Come ha osservato Dupront, con parole di grande efficacia immaginifica: "La scoperta del mondo, che si realizza lentamente nella coscienza dell'Occidente moderno, consente, fin dai primi sviluppi del suo impatto, di cogliere quasi fisicamente i 'piani' dell'uomo moderno. Sentimento dell'illimitatezza dello spazio, volontà di possesso e atteggiamento di solitudine sono le forze che in essa s'intrecciano"[13].

Tuttavia, la nuova frontiera dell'economia mondiale, las Indias, ha per lungo tempo rappresentato non solo il momento di arrivo dell'iniziativa avventurosa dei viaggi di esplorazione, delle innovazioni tecniche ad essi collegate e delle scoperte geografiche, ma anche la base di partenza per la 'conquista' di vastissimi territori e per la prevalenza di una stringente logica di predominio economico. Sebbene il modello dell'economia atlantica avesse molti caratteri in comune con quello dei commerci e della navigazione mediterranei –tanto da far parlare dell'Atlantico come di una 'estroflessione' del più antico Mediterraneo–, non si può sminuire l'importanza della novità, che si fondava sull'espansione degli scambi come grande leva per la connessione tra mondi tanto diversi, per la diffusione di un potente meccanismo di arricchimento. In particolare, lo schema della conquista prevedeva una crescita della prosperità a senso unico: i metalli preziosi –e, poi, le materie prime– importati dai territori d'oltreoceano in cambio di prodotti europei di scarso valore e bassa qualità, eccetto in rari casi, si indirizzavano inesorabilmente verso i paesi più fiorenti del Vecchio Continente, sostando solo nella penisola iberica, che fungeva da grande centro di intermediazione delle ricchezze europee.

Il mercantilismo, una dottrina priva di grandi e raffinate basi teoriche ma dotata di una solida concretezza e sostenuta da un successo indiscutibile nella pratica, riuscì ad imporsi come elemento connettivo di una lunga epoca storica, durata fino alle soglie della 'rivoluzione industriale'. Nel corso di questo lungo periodo, l'economia si legò sempre di più al ruolo degli Stati, alla loro capacità di commerciare i prodotti all'esterno dei confini nazionali, al protezionismo interno ed alla propensione ad accumulare metalli preziosi. Tuttavia, in questo contesto generale, in cui ebbero origine e si consolidarono le politiche di potenza, con condizioni squilibrate ed estremamente propizie di guadagno, non scomparve il ruolo del fattore umano, che, anzi, venne esaltato dai traffici su larga scala e dall'attività di negoziazione tipica del commercio, anche quello delle grandi compagnie. Il mercante (che era anche banchiere, assicuratore, armatore, proprietario immobiliare e, spesso, imprenditore industriale o agricolo) non si limitò a sviluppare la sua abilità e competenza sul piano organizzativo, ma diventò un conoscitore delle tecniche e dei contenuti profondi della propria attività e delle altre in cui man mano si avventurava alla ricerca di un ampliamento del proprio raggio d'azione, di una diversificazione dei settori d'iniziativa e di nuove possibilità di profitto. Dagli sforzi e dai risultati di questi uomini attenti, operosi ed innovatori dipesero spesso le fortune di intere nazioni, la capacità di successo di una moltitudine di iniziative economiche e commerciali, soprattutto di carattere privato.

Il commercio atlantico non è stato sempre uguale a sé stesso. Basti vedere il passaggio progressivo da una prevalenza assoluta dell'oro e dell'argento su ogni altra importazione, alla loro progressiva 'sostituzione' con i prodotti ed i materiali necessari per la produzione manifatturiera e, poi, industriale dei paesi europei. In questo modo è stato messo in discussione il vecchio modello del pacto colonial, che prevedeva un meccanismo del tutto ineguale di scambio tra merci con divergente valore –anche per effetto della carenza di un'economia monetaria nei territori coloniali– , fino ad arrivare nel XIX secolo al suo definitivo superamento, perlomeno nelle forme più smodatamente oppressive. Nel corso dei secoli tra la scoperta dell'America e la 'rivoluzione industriale' lo spazio economico dell'Atlantico, il «mar delle Tenebre»[14], ha rappresentato –a cominciare dalla formazione della Carrera de las Indias– un grande strumento di integrazione tra culture diversificate e mondi distanti. Insomma, la scoperta di nuovi, immensi spazi geografici ha comportato, ben al di là degli effetti rovinosi della 'conquista' e delle iniquità del sistema coloniale, un ampliamento inusitato delle relazioni sociali e del campo di attività umano, aumentando le opportunità di affermazione individuale e di crescita economica anche nei territori d'oltreoceano. Un processo di 'globalizzazione' sicuramente controverso, ma talmente complesso da riuscire ad offrire un ambito del tutto nuovo ad ognuna delle forze in campo ai due lati dell'Atlantico.

La serie concatenata di eventi che ha portato alla realizzazione di quella che viene comunemente definita 'rivoluzione industriale', a seconda dell'orientamento interpretativo, può essere considerata come un fatto che inizialmente ha riguardato la sola Gran Bretagna o un insieme territoriale più esteso a livello europeo. Infatti, gli esponenti della new economic history, rivedendo la storiografia precedente, hanno proposto un quadro ampio –molto più sfumato– sia in termini spaziali che cronologici, del passaggio dai periodi dell'espansione dei traffici commerciali, della 'protoindustrializzazione', delle trasformazioni agrarie, a quello dell'avvento dell'industrializzazione vera e propria. La 'nuova storia economica' ha sostenuto l'idea di un processo graduale di industrializzazione, che non è stato limitato ad un unico paese, ma che ha fin dall'inizio interessato uno spazio geografico vasto, un sistema-mondo esteso ed articolato. Quando Sidney Pollard ha evidenziato una netta distinzione tra l'Europa interna e quella periferica, individuando la prima come il luogo principale dell'avvio della trasformazione industriale, ha inteso delineare proprio questa originaria apertura ad una profonda innovazione economica da parte di un arco non limitato di paesi e di forze produttive[15].

Anche se si dovesse considerare un inizio più concentrato nello spazio e nel tempo, l'incedere del fenomeno dell'industrializzazione farebbe risaltare, in ogni caso, l'ampliamento delle opportunità economiche e del mercato, l'allargamento inusitato dell'orizzonte produttivo e territoriale entro cui si trovava ad operare una larga parte dell'umanità, perlomeno –in una prima fase– all'interno del continente europeo. La produzione su scala industriale, infatti, comporta diverse conseguenze, più o meno ravvicinate. Innanzitutto, la ricerca di mercati più vasti, una volta saturato quello interno dei paesi industrializzati; ma anche il passaggio dalle economie protette al libero scambio; la formazione e l'allargamento del capitale industriale, attraverso il processo di accumulazione; l'intensificazione massiccia delle attività di distribuzione collegate ai prodotti industriali, anche mediante nuove forme di subordinazione dei paesi meno sviluppati; fino all'insorgere delle prime crisi di sovrapproduzione, come segno folgorante del cambiamento di un'epoca[16].

Il carattere espansivo dell'industrializzazione è apparso ancora più chiaro nel caso dello sviluppo successivo degli Stati Uniti d'America, con il collegamento stretto tra questo fenomeno e il mito della 'frontiera', della conquista alle attività produttive di nuovi spazi –quasi illimitati– da parte dell'uomo. Del resto, il carattere globale di quest'ultima trasformazione è stato mostrato con estrema nitidezza dal passaggio di testimone nel ruolo di paese-guida tra l'Inghilterra e gli USA, come atto emblematico dell'affermazione di una nuova fase dell'economia mondiale e della tendenza ad una sempre maggiore interconnessione tra i diversi sistemi produttivi e commerciali. Infatti, la storia del XX secolo, pur nei suoi inestricabili contrasti e squilibri di fondo, ha presentato il carattere distintivo di una crescita integrata e di un'estensione continua delle relazioni economiche internazionali.

In conclusione, la globalizzazione, se corrispondono al vero le osservazioni fin qui effettuate, non è affatto una novità assoluta, ma può essere fatta risalire –sotto altre forme e dimensioni– anche a periodi molto lontani nel tempo. Inoltre, una più attenta valutazione del fenomeno sotto il profilo storico può rendere chiaramente intellegibile il quadro dei rischi e delle opportunità ad esso collegati.

Il processo di integrazione e di globalizzazione non è di per sé né un bene né un male. È il 'luddismo' contemporaneo, sintomo non solo di un malessere di tipo conservatore, ma anche di un rifiuto ideologico e massimalista, a confondere l'orizzonte del futuro. È l'ottimismo esagerato ed irrazionale dei navigatori del nulla, degli 'ipertecnologi' e degli speculatori privi di ogni regola, a determinare un giudizio negativo sui processi di profonda trasformazione in atto. Tuttavia, ad un analista non sfornito di capacità di osservazione e di spirito critico appare del tutto plausibile che il mondo autoritario ed illiberale di Orwell resti confinato a lungo in un bellissimo romanzo[17]. Perdipiù, se la 'nuova economia' e –parafrasando Huxley[18]– il 'mondo nuovo' che ne deriva dovessero essere contraddistinti più dallo sviluppo delle conoscenze che da quello dei meri profitti, il paradigma innovativo sarebbe del tutto inequivocabile.

Tuttavia, avendo semplicemente l'intenzione di valutare l'evoluzione di un fenomeno che è stato definito di 'globalizzazione', possiamo limitarci a considerarlo come un portato della storia complessa dell'umanità, esaminandone la natura e la diversità dei caratteri nelle distinte epoche, come è stato fatto, senza esprimere alcun giudizio finale di valore. Già questa analisi potrebbe servire a chi ne ha interesse, i giovani soprattutto, per esprimere una valutazione maggiormente ponderata del fenomeno –rispetto a quelle correnti– e ad intraprendere un proprio autonomo sforzo di analisi e di riflessione, che è sempre benvenuto come un elemento vero di arricchimento degli individui e della società.

Notes

[1] Sen, A., Globalizzazione e libertà. Milano, Arnoldo Mondadori, 2002, 15-16.
[2] Information Technology è il "termine che esprime l'insieme di tutte le tecnologie per l'elaborazione, la memorizzazione, l'utilizzo e la comunicazione dell'informazione" (Longo, F., Il dizionario informatico. La banca dati dell'Information Technology. Venezia, Università di Venezia, 1994-2002 ); mentre Information and Communications Technology (ICT) è il "termine che enfatizza l'aspetto della comunicazioni dell'IT in ambito educativo. La notazione ICT comprende tutti gli strumenti per la comunicazione di reti sia hardware che software" (Longo, F., Il dizionario informatico..., op. cit., ).
[3] Da Empoli, G., Overdose. La società dell'informazione eccessiva. Venezia, Marsilio, 2002, 11.
[4] Sen, A., Globalizzazione..., op. cit., 14-15. Sen prosegue nella sua riflessione, osservando che: "La globalizzazione delle relazioni non è certo quello che i partecipanti al movimento vogliono fermare, poiché in tal caso dovrebbero cominciare fermando se stessi".
[5] Cf. Burke, P., Una rivoluzione storiografica. La scuola delle «Annales», 1929-1989. Bari, Laterza, 1992; ed. orig. The French historical revolution. The «Annales» school, 1929-89. Cambridge-Oxford, Polity Press - Basil Blackwell, 1990. Questa scuola storiografica fondamentale del XX secolo, legata all'esperienza del tutto innovativa delle "Annales", ha fornito una chiave di lettura di grande significato, anche alla luce delle teorie più recenti. Le grandi trasformazioni economiche, infatti, non potevano essere considerate nella loro accezione più restrittiva, ma andavano inserite in un contesto unitario, in una visione "globale", che comprendeva la geografia come la storia, le vicende individuali e di gruppo come i processi sociali e gli avvenimenti di carattere generale: in questo modo, perde valore qualsiasi impostazione di tipo economicista e non basta il riferimento ai dati quantitativi per fornire una chiara esplicazione dei fenomeni e delle vicende essenziali dell'umanità.
[6] Cf. Wallerstein, I., Il sistema mondiale dell'economia moderna (3 vols.). Bologna, il Mulino, 1978-1995; ed. orig. The modern world-system. New York-London-San Diego, Academic Press, 1974-1989.
[7] Cf. Braudel, F., La dinamica del capitalismo. Bologna, il Mulino, 1981; ed. orig. La dynamique du capitalisme. Paris, Éditions Arthaud, 1985 (già pubblicato nel 1977 - da una conferenza svolta alla Johns Hopkins University nel 1976 - in Paris, "Champs" - Flammarion, n. 192). Secondo Braudel: "È necessario utilizzare due termini: economia mondiale ed economia-mondo, di cui il secondo è più importante del primo. Per economia mondiale intendo l'economia del mondo globalmente inteso, il «mercato di tutto l'universo», come diceva già Sismondi. Per economia-mondo, termine che ho costruito a partire dall'espressione tedesca Weltwirtschaft, intendo l'economia di una parte del nostro pianeta, a condizione che essa formi una totalità, un insieme" (ibid., 76). Secondo Wallerstein, in riferimento al termine world-economy: "In inglese esso è una traduzione del termine francese économie-monde, che a sua volta Braudel stesso ha inventato quale traduzione dal tedesco Weltwirtschaft. Orbene, Weltwirtschaft può significare «l'economia del mondo intero»: in francese sarebbe économie mondiale, in inglese world economy e in italiano «economia mondiale». Ma Weltwirtschaft può anche significare «un'economia che è essa stessa un mondo, anche se le sue frontiere non racchiudono il mondo intero». Per rendere questo concetto in francese, Braudel ha riunito le due parole économie e monde con un trattino ottenendo économie-monde" (Wallerstein, I., Il sistema..., op. cit., vol. I, 15).
[8] Braudel, F., La dinamica..., op. cit., 78.
[9] Id., "Introduzione all'edizione italiana", in Wallerstein, I., Il sistema..., op. cit., vol. I, 9.
[10] Beck, U., Che cos'è la globalizzazione? Rischi e prospettive della società planetaria. Roma, Carocci, 1999, 39; ed. orig. Was ist globalisierung? Irtümer des globalismus - antworten auf globalisierung. Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1997.
[11] Cf. Wallerstein, I., "La mondialisation n'est pas nouvelle", postfazione a Le capitalisme historique. Paris, Éditions la Découverte, 2002, ora in .
[12] Per un quadro d'insieme della storia economica di questi periodi –ma non solo–, con un particolare riferimento ai fenomeni dell'espansione e, poi, dello sviluppo capitalistico su larga scala, si rinvia al recente volume di Di Vitorio, A. (coord.), Dall'espansione allo sviluppo. Una storia economica d'Europa. Torino, Giappichelli, 2002.
[13] Dupront, A., Spazio e umanesimo. L'invenzione del nuovo mondo. Venezia, Marsilio, 1993, 103; ed. orig. Espace et humanisme. Paris, l'École des hautes études en sciences sociales, 1946.
[14] Con questa espressione gli arabi indicavano l'oceano Atlantico.
[15] Cf. Pollard, S., La conquista pacifica. L'industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970. Bologna, il Mulino, 1984; ed. orig. Peaceful conquest. The industrialization of Europe 1760-1970. Oxford, Oxford University Press, 1981.
[16] È solo dopo il successo e la diffusione della "rivoluzione industriale" che perfino le crisi assumono come dato ineluttabile quello della sovrabbondanza di beni, dell'eccesso di capacità produttive.
[17] Cf. Orwell, G., 1984. Milano, Arnoldo Mondadori, 1950; ed. orig. Nineteen eighty-four: a novel. London, Secker & Warburg, 1949.
[18] Cf. Huxley, A., Il mondo nuovo. Milano, Arnoldo Mondadori, 1933; ed. orig. Brave new world. London, Chatto & Windus, 1932.

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